domenica 22 aprile 2007

Quinta missiva

Antico proverbio cinese: ''Nel cielo c'è il paradiso, sulla terra ci sono Suzhou e Hangzhou''.

Siamo in riva al celeberrimo ed incantevole lago di Hangzhou, è domenica mattina, il sole splende alto in cielo, pagode, alberi e barchette a perdita d’occhio: la quiete prima della tempesta. Sapientemente posizionati da uno sottile stratega, probabilmente memore degli insegnamenti di Sun Tzu (il leggendario autore dell’Arte della guerra, ndr), una legione di altoparlanti mimetizzati fra gli alberi inizia simultaneamente a gracchiare, diffondendo ai quattro venti le suadenti melodie dell’immortale The Voice, aka Frank Sinatra. Attirati come api (forse orsi è più appropriato...) dal miele, sciami di turisti con rigoroso cappellino monocolore (particolarmente apprezzato un arancione fluo ritenuto forse in sintonia con le azzurre acque ed i verdi prati) e guida iperattiva dotata di pennone (chiamarla bandierina sarebbe riduttivo) e microfono d’ordinanza ci travolgono sgranocchiando un’infinita varietà di cibarie. Sarebbe ingenuo pensare che in un Paese popoloso come la Cina una località turistica così famosa possa essere allo stesso tempo tranquilla.

Tentando di sfuggire alla calca, ci rifugiamo in cima alla pagoda Lei Feng, recentemente ricostruita per volontà dell’amministrazione, da dove si ha una visione completa dell’intera vallata e della moderna e vivibile città di Hangzhou. Osservando il comportamento dei turisti, quasi tutti cinesi, sia camminando attraverso il parco che avendo una visione quasi zenitale dalla pagoda, si ha un’impressione abbastanza netta: per loro il paesaggio è un fondale, un pittoresco acquarello che risponde a millenarie leggi di composizione degli elementi. Sentieri sempre tortuosi, piante accuratamente scelte ed accostate per cromatismo e fragranza, rocce dalle morbide forme modellate, laghetti, ponticelli e percorsi a zig zag sull’acqua. In alcuni punti, ritenuti probabilmente i più simbolici, sono addirittura già predisposti dei palchi orientati in modo che le comitive possano scattare la foto ricordo godendo della miglior inquadratura e dello sfondo consono ai loro canoni estetici.
In quanto a paesaggi e ricordi, il giorno prima, da buon friulano della Bassa, avevo avuto una forte sensazione di déjà vu, quando, solcando con gli altri studenti della Tongji i canali delle Xixi Wetlands, avevo ritrovato le atmosfere della foce del fiume Stella e della laguna di Marano, con i canneti, le anatre e gli edifici molto simili ai nostrani casoni ricoperti di canne. Qui però all’istituzione Geremia, lupo di laguna che mangia vetro per la gioia dei turisti, si sostituivano degli alacri distillatori di vino di riso, bevanda liquorosa venduta poi in contenitori di terracotta o servita al banco per un assaggio.

Dopo un problematico pranzo, esausti torniamo con l’autobus verso Shanghai, l’autostrada è moderna e a tre corsie, il nostro autista sta probabilmente litigando con la fidanzata al telefono e continua imperterrito a sorpassare a destra percorrendo la corsia d’emergenza e strombazzando il clacson baldanzoso, quando arriva un’inaspettata pausa in un posto che definire autogrill sarebbe riduttivo. Usciti dall’autostrada e percorsi alcuni chilometri, entriamo in un enorme parcheggio intasato da corriere di turisti. Alcuni negozi forniscono beveraggi e cibi ai sempre affamati cinesi (non ho ancora capito come facciano ad essere così magri con tutto quello che mangiano…), ma il clou della situazione si raggiunge ai bagni: qui si ritrovano molti dei gruppi di turisti precedentemente incontrati ad Hangzhou, disposti in un lungo serpentone, cappellini arancioni ancora ben calcati in testa, e le guide scandiscono slogan indirizzati questa volta non alla loro sete di conoscenza ma a calmare le vesciche impazienti. Il noto girone dantesco degli incontinenti.

Un paio di giorni dopo, tornato in quel del campus, attraversando la caffetteria del dipartimento, mi sembra di intravedere una faccia nota, mi avvicino e riconosco Liam, un architetto inglese che studiava ad Edimburgo durante il periodo che ho trascorso là in Erasmus tre anni fa. Ci salutiamo, iniziamo a raccontarci cosa abbiamo fatto nel frattempo e scopro che è a Shanghai per il workshop dell’Archiprix, che si svolge per una settimana nel piano terra dell’edificio del Dipartimento di Architettura. Nella giornata seguente, dopo avergli fatto provare le delizie della mensa, siamo andati nel più famoso distretto per “creativi” fra quelli recentemente istituiti dall’amministrazione, l’M50.

Al di fuori, dipinto su un muro lungo la strada che porta all’ingresso dell’area, c’è un curioso murales raffigurante un uomo con bombetta, che ricorda i rubizzi tedeschi dei caustici quadri di Grosz. All’interno del distretto c’è un miscuglio di vecchie palazzine coloniali, di edifici industriali restaurati e di nuovi edifici; le opere esposte nelle gallerie non sono di particolare interesse. Il luogo decisamente più affascinante dell’area è un grande distesa incolta ai margini del Suzhou Creek (un fiume che qualche chilometro più avanti confluisce nello Huang Pu), in cui si ergono pochi edifici coloniali per lo più in abbandono. Sull’altra sponda del fiume si trova un’enorme gated community, il contrasto è molto forte, l’atmosfera straniante ricorda molto quella di alcuni vuoti urbani berlinesi, e stupisce che un'area così ampia e centrale sia sfuggita all’implacabile opera di ricostruzione della città.

Durante la serata, dopo aver dubitato per settimane della loro esistenza, siamo andati in alcuni locali un po’ meno eleganti e costosi (per lo standard locale) del solito, in cui c’erano, suscitando il mio stupore, anche molti cinesi giovani. Fino a quel giorno mi sembrava infatti ci fossero grandi differenze nel modo di intendere il tempo libero fra me e i miei coetanei cinesi, e mi ha un po’ confortato vederli ballare musica elettronica, hip hop o rock e divertirsi con gli amici come si fa in tutto il mondo.

Ho seguito un po’ gli sviluppi del lavoro dei vari gruppi durante il workshop Archiprix, e, salve poche eccezioni, un atteggiamento era prevalente: la difesa a spada tratta dei lilong, le lodi e l’apprezzamento verso l’intensa e colorata vita di strada, la condanna senza appello delle gated communities, il tentativo di proporre o inventare nuove tipologie abitative alternative. Personalmente non sono un sostenitore delle gated communities, ma spesso provo a chiedermi perché questo modello insediativo riscontri tanto successo in tutto il mondo, intuendo il fascino che le semplificazioni e i concetti radicali spesso portano con sé.
Durante il workshop mi è sembrato invece che motivazioni spesso ingenue e poco consapevoli della realtà cinese muovessero il compatto gruppo degli “anti-compound”, posizione ben descritta da Adrian Hornsby in un allegato dell’ultimo numero della rivista Urban China: “In China it’s becoming an urban cliché to have a group of agonized foreign theorists standing on the sidelines wringing their hands (about control, coordination, speed, and harshness of change, etc.) while undeterred and highly successful developments plough right past them. The trouble is that within the Chinese context, the scale and pressure of urbanization is completely mismatched to western notions of “sensitive development”. In fact, the entire western rhetoric of “preserving a sense of place”, and offering “well-thought out responses to the existing urban fabric” becomes nonsensical when presented with the reality of a new city nation”.

Sempre nello stesso interessante allegato viene illustrata parte della ricerca del gruppo Dynamic City Foundation, che fra le altre cose sta svolgendo un sondaggio anonimo online che ha come tema l’idea che si ha della propria condizione abitativa nella Cina dell’anno 2020 (il questionario si può trovare nel sito http://www.china-at-home.org/). Nel breve testo è presente una selezione di risposte date dai cittadini: spesso si nota come le idee siano piuttosto confuse, c’è un generico desiderio di città con più spazi pubblici e verde, anche se non se ne specifica bene le qualità, e si tende a volere la botte piena e la moglie ubriaca. Una risposta però mi ha particolarmente colpito per la sua schiettezza e lucidità, e penso possa essere intesa come un “manifesto” di coloro che vogliono abitare in un compound: “My dream for 2020 is to have my own apartment in a tower, with western accommodations. I would like to fit it out with all western furniture. I tend to go for decadence to state my financial position in life. As for life in the city, it will depend more on shopping public places and how to decorate your own apartment. Most of public city life will be replaced by the fear of provincial unrest gone wild in our cities. And the pollution awaiting our weakened lungs outside. So the interior of our buildings will be what remains of our city life, or how to fit out your apartment; this will be the new shopping. Oops, that’s my negativity creating a protective cocoon or just a nightmare. But my true dream is too idealistic and altruistic to be true, green spaces, lively public life, and environmental standards. But lets be honest, this capitalist/communist hybrid has yet to bring good things to the average Chinese citizen. Political unrest, an unhealthy environment, and rampant consumerism, will only plague us Chinese citizens. So all we have to dream for is a nice place to live in. Negative yes, but honest. So sell me your development with rendered comfort, traditional Chinese serenity, and large fence to keep the negativity outside.”

Sembra quasi di essere tornati ad una concezione ottocentesca della città, quando c’era una diffusa segregazione e compartimentazione, e gli appartenenti alle diverse classi quasi neanche si vedevano ed incrociavano: spesso si ha ingenuamente un’idea romantica e nostalgica della città antica, come luogo di armonia, convivenza e di contrasti attutiti. Benjamin, descrivendo la Parigi del XIX sec., descrive il fenomeno della maniacale attenzione verso l’abitazione con la consueta eleganza: “La città come paesaggio e come stanza. […] L’intérieur non è solo l’universo, ma anche la custodia del privato cittadino. Abitare significa sempre lasciare tracce, ed esse acquistano, nell’intérieur, un rilievo particolare. Si inventano fodere e copertine, astucci e custodie in quantità, dove si imprimono le tracce degli oggetti d’uso quotidiano.” L’ossessione quasi compulsiva per l’arredamento e la cura maniacale per la casa sono molto diffusi fra gli odierni abitanti delle gated communities, così come gli spazi verdi sono spesso utilizzati ed intesi più come una sorta di rilassante panorama/diorama di cui godere comodamente dal proprio divano che come dei luoghi di cui usufruire a diretto contatto con il terreno (l’atteggiamento non è poi così diverso da quello tenuto dai turisti ad Hangzhou).

Altre piacevoli serate durante la settimana: la prima con la Vulcanica ed altri amici allo Shanghai Grand Theater in Piazza del Popolo per la Carmen di Bizet, poi nelle giornate seguenti una cena con vista mozzafiato sul Bund alla Jinmao Tower con Liam ed altri architetti e giornalisti olandesi, terminata con una lunga chiacchierata nel magnifico parco in cui si trova il bar Face, e la festa di compleanno di una collega di lavoro di Nicola tenutasi in un bar con anziana vicina di casa particolarmente irrequieta.

Sabato ho poi avuto l’occasione di recarmi nel sito in cui si stanno preparando le strutture per l’Expo del 2010 con cinque studenti del prof.Lou. Dopo un lungo viaggio in autobus dalla Tongji fino alla parte meridionale di Pudong, abbiamo attraversato alcuni dei quartieri residenziali ai margini dell’area in trasformazione, incontrando numerose persone che portavano a spasso il cane indossando pigiama e pantofole (qui a quanto pare è uno status symbol la passeggiata mattutina con il fedele compagno canino). Grazie ad appositi permessi, siamo poi riusciti ad entrare direttamente nell’area, dove ancora si trovano importanti ed immensi stabilimenti produttivi che nei prossimi anni saranno destinati ad essere smantellati: acciaerie, cantieri navali, depositi.

La nostra presenza ha attirato l’attenzione di Li, simpatico e loquace guardiano di uno degli accessi, che si è prontamente offerto di accompagnarci nella nostra esplorazione. Dopo essere usciti piuttosto impolverati e con i polmoni sofferenti dall’area dell’acciaieria e dopo un lauto pranzo nelle vicinanze, abbiamo percorso alcuni chilometri verso sud, per andare ad intervistare un amico di uno degli studenti e la sua famiglia. Xiang, suo papà Caimin e sua mamma Xiaocao, come molte altre famiglie, abitavano nell’area dove si terrà l’Expo. La loro abitazione è stata demolita, e gliene è stata fornita una nuova ed un po’ più ampia in una gated community appositamente realizzata nella periferia della città. Durante la conversazione i membri della famiglia si sono dichiarati nel complesso abbastanza soddisfatti, confermando molto spesso fenomeni e percezioni studiati e commentati nel dettaglio in molte ricerche sociologiche riguardanti gli abitanti dei compound (l’allentamento dei rapporti di vicinato, la difficoltà nell’usufruire di servizi pubblici e commerciali spesso lontani e carenti, la soddisfazione per un ambiente più pulito e con più verde, anche se spesso poco utilizzato, etc.). Durante la camminata all’interno del compound ho avuto la conferma di come spesso gli abitanti reagiscano con flessibilità e grande senso pratico a scelte progettuali o amministrative “poco felici”: è poco sensato fare lottizzazioni molto ampie completamente recintate e con un unico ingresso, ed infatti le sbarre vengono divelte in alcuni punti dai residenti per garantire più accessi ai pedoni; spazi verdi e percorsi monotoni e spesso troppo “disegnati” ed omogenei non sono utilizzati dagli abitanti, e in molti punti si possano notare sentieri formatisi con il continuo passaggio al di fuori delle aree predisposte; le sbarre, i muri e le recinzioni garantiscono una sicurezza più emotiva che effettiva, e quasi tutti dicono che sono inutili nel prevenire furti ed eventuali altri crimini.

Salutati Xiang e la sua famiglia, siamo poi tornati verso nord, e dopo aver attraversato il Nanpu Bridge, che dà quasi l’impressione di essere in un immenso ottovolante, siamo giunti ai piedi del Lupu Bridge, che taglia praticamente a metà l’area dell’Expo. Qui abbiamo preso un ascensore, e dopo aver salito 367 scalini (la guida ha snocciolato durante il percorso una serie infinita di numeri e record stabiliti dal ponte, come ad esempio i 5974 bulloni che garantiscono l’unione delle due parti dell’arco in acciaio, che è il più lungo al mondo) siamo giunti in cima alla colossale struttura. Complice la giornata particolarmente calda e umida, e la conseguente foschia mista ad incredibili dosi di particelle inquinanti, la vista dal ponte poteva essere una versione del XXI secolo del celeberrimo dipinto “Il viaggiatore sopra un mare di nebbia” di Caspar David Friedrich. Solo da qui si può realizzare chiaramente quanti sia estesa l’area dell’Expo: complice la foschia, a fatica si riesce a vedere il Nanpu Bridge, che segna il limite orientale dell’area, ma è comunque sconvolgente la superficie che in soli tre mesi è stata completamente rasa al suolo sulla sponda meridionale dello Huang Pu, a est ed a ovest del Lupu Bridge. Solo pochi edifici sono e saranno conservati, un infinito numero di camion e gru si intravede da lontano muoversi con la frenesia e la sincronia di un’organizzata pattuglia di formiche. E fa ancora più impressione pensare che il cantiere navale sulla sponda settentrionale, ora brulicante di operai, nel giro di pochi anni sarà completamente dismesso e trasformato in un innocuo parco.

Giunge l’ora di scendere:

Lo duca e io per quel cammino ascoso
volgemmo a ritornar nel rumoroso mondo;
e sanza cura aver d'alcun riposo,
scendemmo giù, el primo e io secondo,
tanto ch'i' fotografai de le cose belle
che porta la luce, per un obiettivo tondo.
E quindi uscimmo a respirar le particelle.

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