domenica 20 aprile 2008
News
Per chi fosse interessato a ciò che è accaduto dopo...
http://www.salottobuono.net/
mercoledì 27 giugno 2007
domenica 24 giugno 2007
Quattordicesima missiva
Le città e il desiderio
Gianna
A Gianna, chi si intrattiene in lunghe passeggiate, balli e conversazioni incontra due città contemporanee ed inconciliabili, che si spintonano e si contendono l’attenzione continuamente. La prima è matura, esperta, sguaiata, malleabile, non ha contegno nel mostrare le sue intime azioni quotidiane, sceglie i vestiti dall’armadio secondo bislacche ed imperscrutabili logiche prima di uscire, è ospitale, offre rifugio e soddisfazione ai diversi capricci e necessità. La seconda è giovane, orgogliosa, vanitosa, petulante, spigolosa, segue pedissequamente regole e codici di cui non conosce il significato, cammina stranita ed instabile su tacchi a spillo che non riesce ad ammansire, è civettuola ma imbarazzata nel momento dell’incertezza, è inevitabilmente spiazzata e nuda di fronte a comportamenti inconsueti.
Gli esperti consigliano di non intrattenersi a lungo con le due contemporaneamente, perché quando si incontrano la loro reazione è imprevedibile.
Le città e il nome
Pagura
Dopo aver viaggiato quattro giorni verso oriente, lo stupito viaggiatore scorge la sagoma inconfondibile di Pagura. La città, moderna versione di una leggendaria metropoli delle fertili pianure mediorientali, si avvita su se stessa a perdita d’occhio. Ciò che Pagura ha di particolare, e che le ha fatto guadagnare questo insolito appellativo, è che la città al suo interno è ormai vuota. Essa è fatta puramente del suo guscio di innumerevoli strade sopraelevate che si aggrovigliano fino a formare una solida concrezione, che la città vera e propria, come quegli animali che alacremente si costruiscono una casa attorno e dopo un po’ se ne vanno, ha ormai abbandonato al suo destino, scegliendo di spostarsi verso lande più attraenti. Molti dei suoi abitanti ancora non se ne sono accorti, e continuano imperterriti a sfidarsi e urtarsi in una lotta senza esclusione di colpi, alla ricerca dello svincolo che li porti alla casa che non riusciranno più a trovare.
Tredicesima missiva
“Scolate la pasta un po’ prima che altrimenti poi scuoce!”, “Mescolate in senso antiorario, calcolando con cura la posizione degli astri”, “Non sapete soffriggere l’aglio!!!”.
Due poveri malcapitati alle prese con la Vulcanica intenta nel preparare il pranzo per un’allegra e fracassona famigliola di cinesi che abita in uno dei lilong dei dintorni. Narrano gli araldi che il pranzo fu stabilito durante la traversata dei lilong compiuta una settimana prima, interrotta da imprevista pausa e chiacchierata su sediole taglia asilo-prima elementare (lo scriba al momento non era presente, riferisco da fonti autorevoli).
Dopo laboriosi preparativi, usciamo dal compound con abbondante razione di pasta (“Corta, che è meglio!!!) con sugo ad hoc per gli esigenti ed abitudinari palati cinesi, supportati da golosa crostata di crema e fragole preparata da Armelle.
Attraversiamo le strade fra sguardi incuriositi, poi ci infiliamo in una delle ombrose e caciarone stradine che si ripetono sempre uguali nei lilong. Forse ormai i cinesi non ci aspettavano più, ma ci hanno accolto con entusiasmo, aumentando ad hoc le dimensioni della tavola (da 0,8 a 0,85 mq più o meno) con delle striminzite alette di legno. Le posate portate appositamente vengono presto accantonate per delle autarchiche bacchette di bambù, ed inizia la cerimonia del versamento del succo d’arancia di nobili chimiche origini con relativo brindisi ogni 3 minuti all’incirca (probabilmente è un metodo di misura del tempo di antica tradizione…).
Le mascelle lavorano, quand’ecco che sbuca da una porta il nonno (o presunto tale) in canottiera d’ordinanza, appena ci vede saluta, torna alla sua magione e se ne esce con dei noodles caserecci con zuppetta ricca di specie che avrebbero fatto la gioia di Linneo. Titubanti ne assaggiamo un po’, e prontamente ci presentano un’altra zuppa a base di pomodoro con cipolle, carne di varia origine D.O.S. (denominazione di origine sconosciuta, ndr). La Vulcanica ci si tuffa a capofitto, lodandone la sapidità, per poi pentirsene un’oretta dopo al momento dei saluti. Nel frattempo si sono avvicendati alla tavola vari vicini e curiosi, tra cui la probabile moglie capellona del nonno (nonna per gli amici) con impeccabile pigiama da passeggio. A causa del nostro pranzo en plen air la stradina era praticamente bloccata, e più di qualche rombante centauro è stato costretto a percorrere strade alternative. Il cerbero della compagnia alternava bruschi ordini di allontanarsi ad inviti ad assaggiare le pietanze, facendoci così intuire quali fossero i rapporti e i legami nel vicinato.
Giunge il momento del dolce, Armelle inizia a tagliare le fette coadiuvata da impagabile vecchietta che si ostina a voler aiutarla provando a tagliare con le bacchette. Giunti al sedicesimo brindisi (non oso immaginare cosa potrebbero combinare se al posto del succo chimico bevessero vino), e dopo lunghe disquisizioni sulla nostra ipotetica età e crasse risate ogni due per tre, salutiamo l’allegra compagnia, promettendo future riedizioni del banchetto in strada.
Dopo un lungo e pericoloso addestramento, nella caverna di mastro Huang Huazheng, è arrivata l’ora di mettermi alla prova. Su segnalazione di Huang mi reco in un ingrosso dove si riforniscono gli alberghi, e me ne esco con machete cinese da cucina, un attrezzo atto a raccogliere i cibi dalla wok e giubba e cappello da cuoco di invidiabile fattura. Armelle gentilmente concede la sua cucina per i miei esperimenti, ed altri sei commensali fanno da cavie ed assistono ai miei primi passi nello scintillante mondo dei fornelli cinesi. Dopo un lungo e sofferto rifornimento al supermercato, dove vendono fra le altre cose tartarughe, serpenti d’acqua e i gamberi più brutti e bellicosi che abbia visto in vita mia, ci rechiamo sul luogo del delitto. Piatti scelti per la serata: Xia ren dou fu (tofu con piselli e gamberi), Chao shuang gu (due tipi di funghi con salsa d’ostriche), Jiachangdoufu (tofu “flitto” in pastella con maiale e peperoni) e Shu qiang xia ren (gamberi con salsa di soia). Nella cucina c’è un caldo infernale, in bagno nel frattempo un tubo nell’acqua calda ben pensa di iniziare a spruzzare acqua e vapore, forse convinto di far parte di una sauna finlandese. Devo dire che ho calcolato un po’ male i tempi, e gli ospiti sono costretti ad aspettare ad oltranza (la prima portata è arrivata alle undici meno venti…), ma grazie al prezioso aiuto di Manuela, assunta come assistente per l’occasione, alla fine me la sono cavata abbastanza. Mi siedo a tavola, e sembra sia appena uscito da un allenamento con Rocky Balboa…
lunedì 4 giugno 2007
Comunicazione culinaria di servizio
Premessa: tutti gli ingredienti che citerò, ad esclusione delle uova, vanno cotti/sbollentati prima, meglio se a vapore. Dunque, scaldate bene la wok (o la padella per chi non avesse la wok), sbattete due uova, mettete tre cucchiai d'olio (indicativi, mettetene a seconda di quanto riso fate seguendo l'intramontabile buon senso, per le uova idem), poi versate le uova, poi il riso, fate saltare un attimo, poi aggiungete tutti gli altri ingredienti (Huang il satanasso suggeriva piselli, gamberetti, carote e funghi, se non trovate quelli strambi simil cinesi usate quelli che preferite), sale e pepe a piacimento, mescolate, assagiate (se non è commestibile in prigione senza passare dal via) e servite nei piatti. A chi piace una spruzzata di erba cipollina fresca tritata per decorare. A quanto pare è piuttosto semplice.
Per gli interessati nuove foto sfrigolanti
http://www.flickr.com/photos/ludusc/
I lettori più attenti avranno notato che nella foto di gruppo non c'è la giappa, nel frattempo macellata da noi stessi durante il corso per preparare una piccante e succulenta ricetta sichuanese. Avrei preferito, per godere durante le lezioni di maggior silenzio e commenti più sagaci, sacrificare l'australiana, ma ho perso ai voti, seconda la miglior tradizione parlamentare. La scomparsa è stata sostituita da tale Renata la ceca.
Buona digestione a tutti
Chong
mercoledì 30 maggio 2007
Dodicesima missiva
Cesidia
Ciò che rende Cesidia diversa dalle altre città sono le facciate degli edifici. Queste non hanno finestre, né frontoni di pietra o infissi di legno intagliati. I muri non sono mai stati coperti da un leggero intonaco, né hanno mai conosciuto il tepore dei raggi del sole calante. Ubique strutture di resistente bambù hanno piantato i loro artigli sugli edifici, e si sono spinte con insistenza fino alle più remote profondità della città. Si narra che queste strutture servano da tramite tra il mondo dei vivi e quello dei defunti, che, avendo molto tempo libero ed annoiandosi nei bui sotterranei, si dedicano a quelle che sono le attività preferite dagli abitanti di Cesidia in vita, ovvero spiare, origliare e sparlare del prossimo. Le cavità dei tubi sono sfruttate ora come degli intricati periscopi, ora come degli amplificatori di chiacchiere e sussurri, a volte come canali di posta pneumatica, in cui compatte palle di ipotesi, illazioni ed intrallazzi svelati si rincorrono all’impazzata. Ogni tanto qualcuna di queste palle, spinta dalle pressione di parole e suoni, schizza fuori dalle estremità delle strutture, ferendo gli incauti passanti che camminano nelle vicinanze, o esplodendo in sottili strisce di carta colorata, che, depositandosi casualmente sulle strutture, formano l’unica decorazione dei palazzi che gli abitanti di Cesidia gradiscono.
Le città sottili
Leodora
Se non avessi intravisto le lettere incise sul lucente pendaglio, non mi sarei reso conto di essermi imbattuto in Leodora, città che non si può visitare, che non può essere percorsa, ma può solo essere incontrata ed ammirata, prima che la giovane ragazza che la indossa scompaia portandola via con sé. La città è sgusciante, multiforme, camaleontica, assume con repentini sbalzi d’umore apparentemente casuali l’aspetto di monili ed indumenti femminili. Soffice, impalpabile, calda come uno scialle raffinato, improvvisamente si contrae, si condensa in una pietra dura, fredda e sfaccettata. Pochi attimi e la ragazza indossa una tunica sobria, semplice ed austera, che nel corso della giornata diventerà una gonna ampia e sbarazzina, nelle cui pieghe si nascondono le formule segrete che protraggono nel tempo il sortilegio. Questo fa sì che la città assecondi il clima e l’ambiente in cui viene portata, che ne assecondi ed esalti con eleganza le caratteristiche. Leodora non ha abitanti, ma essa stessa abita, nell’immaginazione di chi desidera incontrarla e nel ricordo di chi non potrà più dimenticarla.
sabato 26 maggio 2007
Undicesima missiva
Prologo dalle “Città invisibili”
“Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore.
Nella vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per l'ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l'odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull'altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest'impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d'un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.”
Primo resoconto
Le città e il cielo
Miranda
Chi arriva a Miranda di giorno trova sul piatto terreno una grande scacchiera di ombrosi rettangoli, freschi o polverosi, appartati o lucidi, grinzosi o affannati. Questi altro non sono che la proiezione degli innumerevoli tetti di cui è composta la città, sospesi a mezz’aria secondo imperscrutabili leggi. Acuminati ed infidi, soffici e gremiti, istrionici e bitorzoluti, fumosi e laconici, i tetti formano un solido arcipelago di spessi ed indecifrabili incunaboli, chiamato dai suoi abitanti Miranda. Ogni giorno, quando il sole inizia a calare, una vociante squadra si avvia con dei lunghissimi ganci a srotolare i teli che stanno accovacciati sui tetti. Ogni telo ha una trama ed un ordito diverso, in alcuni scorrono dall’alto luminosi rigagnoli, altri assumono la sembianza di un cruciverba incompleto, molti sono colonizzati da instabili nidi di caucciù intrecciato. Solo quando i teli vengono srotolati, e con insistenti colpi di clacson preavvisano il loro arrivo a terra, l’indifferente suolo viene compartito in vie e piazze, corti e giardini segreti. La notte porta agli abitanti orientamento e direzione, riparo e certezze, fino a quando, al levar del sole, l’implacabile squadra riavvolge i teli, e si ritira insonnolita in uno degli infiniti ombrosi rettangoli di Miranda.