Le città e i morti
Cesidia
Ciò che rende Cesidia diversa dalle altre città sono le facciate degli edifici. Queste non hanno finestre, né frontoni di pietra o infissi di legno intagliati. I muri non sono mai stati coperti da un leggero intonaco, né hanno mai conosciuto il tepore dei raggi del sole calante. Ubique strutture di resistente bambù hanno piantato i loro artigli sugli edifici, e si sono spinte con insistenza fino alle più remote profondità della città. Si narra che queste strutture servano da tramite tra il mondo dei vivi e quello dei defunti, che, avendo molto tempo libero ed annoiandosi nei bui sotterranei, si dedicano a quelle che sono le attività preferite dagli abitanti di Cesidia in vita, ovvero spiare, origliare e sparlare del prossimo. Le cavità dei tubi sono sfruttate ora come degli intricati periscopi, ora come degli amplificatori di chiacchiere e sussurri, a volte come canali di posta pneumatica, in cui compatte palle di ipotesi, illazioni ed intrallazzi svelati si rincorrono all’impazzata. Ogni tanto qualcuna di queste palle, spinta dalle pressione di parole e suoni, schizza fuori dalle estremità delle strutture, ferendo gli incauti passanti che camminano nelle vicinanze, o esplodendo in sottili strisce di carta colorata, che, depositandosi casualmente sulle strutture, formano l’unica decorazione dei palazzi che gli abitanti di Cesidia gradiscono.
Le città sottili
Leodora
Se non avessi intravisto le lettere incise sul lucente pendaglio, non mi sarei reso conto di essermi imbattuto in Leodora, città che non si può visitare, che non può essere percorsa, ma può solo essere incontrata ed ammirata, prima che la giovane ragazza che la indossa scompaia portandola via con sé. La città è sgusciante, multiforme, camaleontica, assume con repentini sbalzi d’umore apparentemente casuali l’aspetto di monili ed indumenti femminili. Soffice, impalpabile, calda come uno scialle raffinato, improvvisamente si contrae, si condensa in una pietra dura, fredda e sfaccettata. Pochi attimi e la ragazza indossa una tunica sobria, semplice ed austera, che nel corso della giornata diventerà una gonna ampia e sbarazzina, nelle cui pieghe si nascondono le formule segrete che protraggono nel tempo il sortilegio. Questo fa sì che la città assecondi il clima e l’ambiente in cui viene portata, che ne assecondi ed esalti con eleganza le caratteristiche. Leodora non ha abitanti, ma essa stessa abita, nell’immaginazione di chi desidera incontrarla e nel ricordo di chi non potrà più dimenticarla.
mercoledì 30 maggio 2007
sabato 26 maggio 2007
Undicesima missiva
Prima puntata di una supponente e vanagloriosa appendice alle “Città invisibili” di Calvino. Ipotetici resoconti di Marco Polo al Khan, di ritorno dalla instancabile Shanghai degli albori del XXI secolo.
Prologo dalle “Città invisibili”
“Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore.
Nella vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per l'ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l'odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull'altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest'impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d'un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.”
Primo resoconto
Le città e il cielo
Miranda
Chi arriva a Miranda di giorno trova sul piatto terreno una grande scacchiera di ombrosi rettangoli, freschi o polverosi, appartati o lucidi, grinzosi o affannati. Questi altro non sono che la proiezione degli innumerevoli tetti di cui è composta la città, sospesi a mezz’aria secondo imperscrutabili leggi. Acuminati ed infidi, soffici e gremiti, istrionici e bitorzoluti, fumosi e laconici, i tetti formano un solido arcipelago di spessi ed indecifrabili incunaboli, chiamato dai suoi abitanti Miranda. Ogni giorno, quando il sole inizia a calare, una vociante squadra si avvia con dei lunghissimi ganci a srotolare i teli che stanno accovacciati sui tetti. Ogni telo ha una trama ed un ordito diverso, in alcuni scorrono dall’alto luminosi rigagnoli, altri assumono la sembianza di un cruciverba incompleto, molti sono colonizzati da instabili nidi di caucciù intrecciato. Solo quando i teli vengono srotolati, e con insistenti colpi di clacson preavvisano il loro arrivo a terra, l’indifferente suolo viene compartito in vie e piazze, corti e giardini segreti. La notte porta agli abitanti orientamento e direzione, riparo e certezze, fino a quando, al levar del sole, l’implacabile squadra riavvolge i teli, e si ritira insonnolita in uno degli infiniti ombrosi rettangoli di Miranda.
Prologo dalle “Città invisibili”
“Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore.
Nella vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per l'ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l'odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull'altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest'impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d'un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.”
Primo resoconto
Le città e il cielo
Miranda
Chi arriva a Miranda di giorno trova sul piatto terreno una grande scacchiera di ombrosi rettangoli, freschi o polverosi, appartati o lucidi, grinzosi o affannati. Questi altro non sono che la proiezione degli innumerevoli tetti di cui è composta la città, sospesi a mezz’aria secondo imperscrutabili leggi. Acuminati ed infidi, soffici e gremiti, istrionici e bitorzoluti, fumosi e laconici, i tetti formano un solido arcipelago di spessi ed indecifrabili incunaboli, chiamato dai suoi abitanti Miranda. Ogni giorno, quando il sole inizia a calare, una vociante squadra si avvia con dei lunghissimi ganci a srotolare i teli che stanno accovacciati sui tetti. Ogni telo ha una trama ed un ordito diverso, in alcuni scorrono dall’alto luminosi rigagnoli, altri assumono la sembianza di un cruciverba incompleto, molti sono colonizzati da instabili nidi di caucciù intrecciato. Solo quando i teli vengono srotolati, e con insistenti colpi di clacson preavvisano il loro arrivo a terra, l’indifferente suolo viene compartito in vie e piazze, corti e giardini segreti. La notte porta agli abitanti orientamento e direzione, riparo e certezze, fino a quando, al levar del sole, l’implacabile squadra riavvolge i teli, e si ritira insonnolita in uno degli infiniti ombrosi rettangoli di Miranda.
domenica 20 maggio 2007
lunedì 14 maggio 2007
domenica 13 maggio 2007
Nona missiva
Due istantanee dal fronte.
Prima istantanea
La lama è affilata, il coltello robusto e comodo da impugnare, la vittima giace impotente, il fendente scende implacabile. Shanghai, un pomeriggio di un umido giorno di maggio, in fondo ad un vicolo della fu concessione francese.
No, non è il resoconto di un omicidio. Mi sono iscritto ad un corso di cucina cinese, quattro lezioni, gran maestro e cerimoniere Huang Huazheng, quattro adepti, nello specifico un’australiana, una giapponese , un francese e un italiano, come nelle barzellette. La cucina, teatro del mio debutto sul proscenio dei fornelli orientali, è incastrata fra platani e graziose casupole con tetto a falda. Neanche il tempo di entrare e già mi trovo con grembiule blu, ciotola, coltello e coscia di pollo da macellare con inaudita ferocia. Huang è piuttosto giovane, avrà vent’anni, ma ne sa già una più del diavolo. L’australiana sembra sappia dire una sola parola, “lovely!” (da pronunciare con voce stridula e tono entusiasto), ed ha così definito anche l’imbarazzata coscia di pollo, che per l’occasione è arrossita. La giapponese è piuttosto abile con le lame, si spera non giunga con una katana la prossima volta.
La prima lezione prevede tre piatti della cucina shanghainese, nell’ordine Ju gu jiang (pollo in salsa di soia), Xia ren dou fu ( tofu con gamberi e piselli), Hongshaodudang (pesce non identificabile, simile al merluzzo direi, con salsa di soia, un po’ diversa dalla precedente). Per chi non lo sapesse il tofu è uno dei pilastri della cucina cinese, è fatto con legumi, e può assumere forme, colori e consistenze molto diverse fra loro. Al momento ne ho provati almeno dieci tipi differenti.
Nel complesso me la sono cavata abbastanza bene, a volte è un po’ difficile districarsi fra le diverse salse e ricordarsi l’ordine corretto in cui versarle nella wok (padella cinese) sfrigolante, e Huang minacciava implacabili punizioni corporali in caso di errore. Per dare un’idea, gli ingredienti per il pesce sono, oltre alla polpa del branchiato animale, zenzero, erba cipollina, salsa di soia scura (serve più per dare colore), salsa di soia chiara (molto salata), salsa hoisin (consistenza densa, non ho ancora capito come la facciano, forse funghi…), zucchero, vino da cottura cinese, sale, pepe nero, farina, olio di sesamo, aceto cinese.
Comunque, prima regola, friggere quando la wok emette un leggero fumo e l’olio è a temperatura consona. Seconda, l’aceto cinese e l'olio di sesamo sempre alla fine, in quanto piuttosto volatili. Terza, lo zenzero si taglia a forma di rombo, che fa più chic. Quarta, trattare il tofu (che ha la consistenza di un budino in questo caso) con grande delicatezza ed accortezza, pena lo squagliamento del suddetto e le pernacchie e frustate di Huang.
Prossima lezione, se ho ben capito, piccante cucina sichuanese. Previsti peperoncini, fuoco e fiamme.
Seconda istantanea
La seduta è comoda, fuori è buio, un po’ di sonnolenza, le immagini incalzanti scorrono con ritmo sostenuto. Shanghai, una notte di una fresca serata di maggio, dalle parti di Bejing lu.
No, non sono al cinema. Sono su un taxi, ho appena finito di cenare da Silvia e Nicola, sto tornando verso il placido campus. Qui a Shanghai alcuni taxi hanno nel poggiatesta del sedile del passeggero anteriore uno schermo delle stesse dimensioni di quelli che si trovano orami in molti aerei. Stavo pensando a tutt’altro, quand’ecco che dopo la rituale cantilena che sponsorizza un numero per la prenotazione di bar e ristoranti, lo schermo si accende e cattura la mia attenzione. Quello che va in onda dà un idea abbastanza precisa della pervasività e dell’insistenza con cui la megalopoli conduce la campagna mediatica per comunicare di sé l’immagine di una moderna world city. Negli ultimi anni solo a Barcellona ho visto una simile attenzione e cura verso la comunicazione e il branding della città.
Dunque, torniamo al video: titolo “Taxi people”, poi schermata nera, una linea bianca disegna la silhouhette dei grattacieli di Pudong, parte con ritmo e musica martellanti una carrellata di immagini di sfilate di moda, della godereccia e disinibita gioventù cinese e occidentale che frequenta i locali notturni più rinomati, diligentemente elencati, poi l’attenzione si sposta sulle vie alberate dell’ex concessione francese. Da qui ci si sposta a sud-est, proprio nell’area in cui si terrà l’expo e che ho visitato qualche settimana fa. All'orizzonte si scorgono le acciaierie ancora in attività, mentre in primo piano, in mezzo alla tabula rasa recentemente creata, alcuni bambini mostrano felici dei disegni colorati da loro realizzati con matite e pennarelli. Come nel noto film di Spielberg, lo sfondo è in bianco e nero, cupo, solo i bambini ed in particolare i disegni della città che immaginano sono colorati. Il messaggio è piuttosto chiaro: dopo l’Expo il futuro della città sarà radioso.
Poi si passa ad un negozio di moda ed accessori, due giovani intervistano coetanei, la telecamera si muove con il noto stile “mal di mare” ormai in voga da un po’ anche da noi. Ecco poi una serie di consigli su come agghindarsi per attirare l’attenzione, l’ammirazione e l’invidia dei concittadini alle feste e nelle occasioni mondane. Ad intervalli regolari partono degli stacchi con grafica astratta, molto comuni in canali televisivi come Mtv.
Pubblicità del sito enjoyshanghai. Classifica dei video musicali di successo, con veeejay d’ordinanza a presentare. A ruota segue un video che ricorda molto le riunioni carbonare che si svolgono nei salotti delle casalinghe, anche italiane, per presentare alcuni prodotti (tipo Tupperware etc.). Qui Allen e Cher, vestiti di tutto punto, mostrano le meraviglie degli ultimi prodotti cosmetici giunti da occidente. Una povera e malcapitata modella, a quanto pare loro amica, fa da cavia, e alla fine esce alquanto provata dalla sfiancante seduta estetica. L’uso di alcuni prodotti per la persona qui è ancora relativamente recente, ricordo ancora le sopracciglia inarcate e l’espressione fra il dubbioso e l’incuriosito quando qualche settimana fa chiedevo a ragazzi cinesi della mia età dove comprare un deodorante. In compenso ce ne sono altri a noi sconosciuti, come delle creme sbiancanti per il viso, di cui probabilmente Michael Jackson sarebbe un gran consumatore se vivesse qui.
Ancora uno spot dell’Expo, questa volta l’attenzione si sposta sulle attrazioni turistiche della città (i grattacieli, Xintiandi, la concessione francese, i ponti sullo Huangpu…), a cui l’area in trasformazione si andrà ad aggiungere. Nello blocco seguente una giovane presentatrice, a suo agio in una cucina dal design moderno ed essenziale, tiene una breve lezione di cucina. Ci si aspetterebbe qualche ricetta particolare, invece dopo qualche minuto il risultato è una macedonia di frutta con yogurt, da consumarsi a colazione. Questa è presentata in alternativa alla tradizionale colazione cinese, che molto spesso è un pasto quasi completo con latte e riso, cibi agrodolci e salati, verdure ed intingoli di ogni genere. Da qui il tutto riparte in loop.
I destinatari del video sono abbastanza chiari: i turisti e gli occidentali che vivono e lavorano qui e la nuova classe media cinese che sta trasformando radicalmente la città, sia dal punto di vista fisico che per quanto riguarda gli stili di vita e le abitudini quotidiane. Ogni occasione, anche un breve viaggio in taxi, è buona per inculcare il Nuovo Verbo. Lovely!
Prima istantanea
La lama è affilata, il coltello robusto e comodo da impugnare, la vittima giace impotente, il fendente scende implacabile. Shanghai, un pomeriggio di un umido giorno di maggio, in fondo ad un vicolo della fu concessione francese.
No, non è il resoconto di un omicidio. Mi sono iscritto ad un corso di cucina cinese, quattro lezioni, gran maestro e cerimoniere Huang Huazheng, quattro adepti, nello specifico un’australiana, una giapponese , un francese e un italiano, come nelle barzellette. La cucina, teatro del mio debutto sul proscenio dei fornelli orientali, è incastrata fra platani e graziose casupole con tetto a falda. Neanche il tempo di entrare e già mi trovo con grembiule blu, ciotola, coltello e coscia di pollo da macellare con inaudita ferocia. Huang è piuttosto giovane, avrà vent’anni, ma ne sa già una più del diavolo. L’australiana sembra sappia dire una sola parola, “lovely!” (da pronunciare con voce stridula e tono entusiasto), ed ha così definito anche l’imbarazzata coscia di pollo, che per l’occasione è arrossita. La giapponese è piuttosto abile con le lame, si spera non giunga con una katana la prossima volta.
La prima lezione prevede tre piatti della cucina shanghainese, nell’ordine Ju gu jiang (pollo in salsa di soia), Xia ren dou fu ( tofu con gamberi e piselli), Hongshaodudang (pesce non identificabile, simile al merluzzo direi, con salsa di soia, un po’ diversa dalla precedente). Per chi non lo sapesse il tofu è uno dei pilastri della cucina cinese, è fatto con legumi, e può assumere forme, colori e consistenze molto diverse fra loro. Al momento ne ho provati almeno dieci tipi differenti.
Nel complesso me la sono cavata abbastanza bene, a volte è un po’ difficile districarsi fra le diverse salse e ricordarsi l’ordine corretto in cui versarle nella wok (padella cinese) sfrigolante, e Huang minacciava implacabili punizioni corporali in caso di errore. Per dare un’idea, gli ingredienti per il pesce sono, oltre alla polpa del branchiato animale, zenzero, erba cipollina, salsa di soia scura (serve più per dare colore), salsa di soia chiara (molto salata), salsa hoisin (consistenza densa, non ho ancora capito come la facciano, forse funghi…), zucchero, vino da cottura cinese, sale, pepe nero, farina, olio di sesamo, aceto cinese.
Comunque, prima regola, friggere quando la wok emette un leggero fumo e l’olio è a temperatura consona. Seconda, l’aceto cinese e l'olio di sesamo sempre alla fine, in quanto piuttosto volatili. Terza, lo zenzero si taglia a forma di rombo, che fa più chic. Quarta, trattare il tofu (che ha la consistenza di un budino in questo caso) con grande delicatezza ed accortezza, pena lo squagliamento del suddetto e le pernacchie e frustate di Huang.
Prossima lezione, se ho ben capito, piccante cucina sichuanese. Previsti peperoncini, fuoco e fiamme.
Seconda istantanea
La seduta è comoda, fuori è buio, un po’ di sonnolenza, le immagini incalzanti scorrono con ritmo sostenuto. Shanghai, una notte di una fresca serata di maggio, dalle parti di Bejing lu.
No, non sono al cinema. Sono su un taxi, ho appena finito di cenare da Silvia e Nicola, sto tornando verso il placido campus. Qui a Shanghai alcuni taxi hanno nel poggiatesta del sedile del passeggero anteriore uno schermo delle stesse dimensioni di quelli che si trovano orami in molti aerei. Stavo pensando a tutt’altro, quand’ecco che dopo la rituale cantilena che sponsorizza un numero per la prenotazione di bar e ristoranti, lo schermo si accende e cattura la mia attenzione. Quello che va in onda dà un idea abbastanza precisa della pervasività e dell’insistenza con cui la megalopoli conduce la campagna mediatica per comunicare di sé l’immagine di una moderna world city. Negli ultimi anni solo a Barcellona ho visto una simile attenzione e cura verso la comunicazione e il branding della città.
Dunque, torniamo al video: titolo “Taxi people”, poi schermata nera, una linea bianca disegna la silhouhette dei grattacieli di Pudong, parte con ritmo e musica martellanti una carrellata di immagini di sfilate di moda, della godereccia e disinibita gioventù cinese e occidentale che frequenta i locali notturni più rinomati, diligentemente elencati, poi l’attenzione si sposta sulle vie alberate dell’ex concessione francese. Da qui ci si sposta a sud-est, proprio nell’area in cui si terrà l’expo e che ho visitato qualche settimana fa. All'orizzonte si scorgono le acciaierie ancora in attività, mentre in primo piano, in mezzo alla tabula rasa recentemente creata, alcuni bambini mostrano felici dei disegni colorati da loro realizzati con matite e pennarelli. Come nel noto film di Spielberg, lo sfondo è in bianco e nero, cupo, solo i bambini ed in particolare i disegni della città che immaginano sono colorati. Il messaggio è piuttosto chiaro: dopo l’Expo il futuro della città sarà radioso.
Poi si passa ad un negozio di moda ed accessori, due giovani intervistano coetanei, la telecamera si muove con il noto stile “mal di mare” ormai in voga da un po’ anche da noi. Ecco poi una serie di consigli su come agghindarsi per attirare l’attenzione, l’ammirazione e l’invidia dei concittadini alle feste e nelle occasioni mondane. Ad intervalli regolari partono degli stacchi con grafica astratta, molto comuni in canali televisivi come Mtv.
Pubblicità del sito enjoyshanghai. Classifica dei video musicali di successo, con veeejay d’ordinanza a presentare. A ruota segue un video che ricorda molto le riunioni carbonare che si svolgono nei salotti delle casalinghe, anche italiane, per presentare alcuni prodotti (tipo Tupperware etc.). Qui Allen e Cher, vestiti di tutto punto, mostrano le meraviglie degli ultimi prodotti cosmetici giunti da occidente. Una povera e malcapitata modella, a quanto pare loro amica, fa da cavia, e alla fine esce alquanto provata dalla sfiancante seduta estetica. L’uso di alcuni prodotti per la persona qui è ancora relativamente recente, ricordo ancora le sopracciglia inarcate e l’espressione fra il dubbioso e l’incuriosito quando qualche settimana fa chiedevo a ragazzi cinesi della mia età dove comprare un deodorante. In compenso ce ne sono altri a noi sconosciuti, come delle creme sbiancanti per il viso, di cui probabilmente Michael Jackson sarebbe un gran consumatore se vivesse qui.
Ancora uno spot dell’Expo, questa volta l’attenzione si sposta sulle attrazioni turistiche della città (i grattacieli, Xintiandi, la concessione francese, i ponti sullo Huangpu…), a cui l’area in trasformazione si andrà ad aggiungere. Nello blocco seguente una giovane presentatrice, a suo agio in una cucina dal design moderno ed essenziale, tiene una breve lezione di cucina. Ci si aspetterebbe qualche ricetta particolare, invece dopo qualche minuto il risultato è una macedonia di frutta con yogurt, da consumarsi a colazione. Questa è presentata in alternativa alla tradizionale colazione cinese, che molto spesso è un pasto quasi completo con latte e riso, cibi agrodolci e salati, verdure ed intingoli di ogni genere. Da qui il tutto riparte in loop.
I destinatari del video sono abbastanza chiari: i turisti e gli occidentali che vivono e lavorano qui e la nuova classe media cinese che sta trasformando radicalmente la città, sia dal punto di vista fisico che per quanto riguarda gli stili di vita e le abitudini quotidiane. Ogni occasione, anche un breve viaggio in taxi, è buona per inculcare il Nuovo Verbo. Lovely!
domenica 6 maggio 2007
Ottava missiva
Un leggero vento da nord scuote le fronde, alcune foglie planano caute sulla tavola imbandita in mezzo all’ampio marciapiede. Primavera a Pechino. Sorseggio la mia Yanjing Beer, mentre Beppe Griglia (nome d’arte, ndr) sta facendo la messa in piega con il phon agli sventurati spiedini ordinati dai nostri affamati vicini. Sembra quasi di essere a Buenos Aires, da un momento all’altro mi aspetto che una sinuosa porteña esca dal negozio di tabacchi, un’indolenza latinoamericana si aggira benevola per le strade e fa da tiepida coltre al pechinese che gioviale scende in pigiama e pantofole a bere e discutere con gli amici.
Arrivando da Shanghai, si ha quasi l’impressione che Pechino sia un immenso villaggio: alberi dovunque, quasi nessuno suona il clacson mentre guida, in alcune zone non si vede all’orizzonte nemmeno un edificio alto e gli abitanti sembrano molto più rilassati e disposti a fermarsi a conversare. Intendiamoci, Pechino è la capitale dello Stato più popoloso del mondo, è semplicemente sterminata (basti solo pensare che stanno costruendo il settimo anello di tangenziale attorno alla città…), ed anche qui, in particolare nelle zone di recente espansione, le torri per uffici ed i compound spuntano come funghi. Però…un dubbio si insinua. Sarà forse dovuto alla strade molto ampie e al fluire imperturbabile di persone e di mezzi, o alla ossessiva e geometrica pianificazione di ogni elemento urbano, dal più esteso al più minuto, resta il fatto che la strana sensazione che si ha è quella di una città ultraterrena, in cui gli abitanti non si occupano di comuni e frenetiche attività, di instabili negoziazioni, di commerci e quotidiani sotterfugi, ma ripetono con imperturbabile precisione misteriosi rituali dalla cadenza millenaria.
Percorrendo i sentieri e fermandosi nelle pagode del Palazzo d’Estate pare quasi di trovarsi in uno degli eleganti ed equilibrati dipinti cinesi del periodo imperiale, perlustrato palmo a palmo da ingordi consumatori di ghiaccioli.
I compatti e monocromi hutong, antichi quartieri popolari lontani antenati dei lilong di Shanghai, si sono ritirati in cerca di salvezza attorno alle rive dei laghetti Hou Hai, ed ogni portone rosso, presidiato dall’onnipresente bandiera nazionale, lascia intravedere mondi paralleli e storie dimenticate. Hugo Pratt avrebbe trovato qui innumerevoli corti sconte da cui far partire il Maltese verso l’ennesima avventura, o semplicemente fargli sorseggiare un tè e giocare a mahjong con un saggio vecchietto.
Piazza Tiananmen, assediata da edifici pubblici sgraziati e mastodontici ed impregnata di penetranti umori storici, sembra la grinzosa pelle di un elefante percorsa da fastidiose e minuscole mosche. La pesante coda, con la regolarità di un pendolo, le spinge verso le tre porte che danno accesso da sud alla Città proibita. Percorro quella centrale, un tempo era riservata solo all’Imperatore, mi avrebbero tagliato la testa per questo. Ora i tempi sono cambiati, e l’enorme ritratto di Mao vigila paterno sugli sciami vocianti. Il giallo, colore dell’Imperatore, ed il rosso dominano incontrastati, simmetria e ripetizione sono qui leggi assolute, ripetute come un mantra che si espande dai templi buddhisti, rinfrescanti ed ombrose oasi policrome. Un’altra legge che vige è quella del senso unico pedonale, alquanto bizzarra in un Paese in cui ognuno si comporta per le strade come fossero un ampio pascolo, e non c’è verso di convincere gli inflessibili vigili (aggettivo e nome qui altamente intercambiabili, ndr) a fare uno strappo alla regola (solito italiano direte voi…).
Esausti al punto giusto per essere sacrificati, ci spostiamo poi al Tempio del Paradiso. Il complesso è monumentale, al tempio vero e proprio seguono un altro tempio circondato dal famoso Muro dell’Eco e l’altare circolare, dove gli imperatori ed i sacerdoti svolgevano i loro riti beneauguranti.
Gli edifici sono disposti secondo un rigido e tradizionale asse nord-sud, e sono collegati dalla Via Sacra elevata rispetto al terreno.
Le serate nel frattempo le abbiamo passate in compagnia di Silvia e Angela, due delle ragazze italiane che avevamo conosciuto a Shanghai e che si sono fermate a Pechino per lavorare. Protagonista assoluta delle cene è stata l’anatra laccata, celeberrima specialità culinaria pechinese, accompagnata da abbondanti porzioni di altre ottime pietanze. Le serate sono poi proseguite spesso a San Li Tun, zona rinomata per i bar e i locali notturni. In questo ambito Pechino lascia un po’ a desiderare ed il confronto con Shanghai è impietoso.
Finalmente il giorno seguente, dopo aver dato un’occhiata ai cantieri delle strutture per le prossime Olimpiadi, andiamo al Midi Festival, ovvero il principale motivo per cui siamo venuti a Pechino durante la settimana di festività nazionale (altrimenti scelta degna di persona poco sana di mente).
Il Midi Festival, che si tiene da qualche anno durante i primi giorni di maggio, è il più grande ed importante festival musicale della Cina. Ci sono cinque palchi di diverse dimensioni, i gruppi che partecipano sono cinesi ed internazionali, e spaziano dal black metal scandinavo alla musica etnica caraibica, dal punk cinese alla musica elettronica internazionale. Il livello delle performance era mediamente piuttosto buono, ed alcuni concerti sono stati molto intensi e di ottima qualità. L’aspetto migliore del festival, a prescindere dalla musica, è l’atmosfera molto rilassata e positiva che si respira, persone molto diverse (dai punksenzabbestia alle signorine in tacchi e minigonna, dai giovani cinesi agli attempati metallari europei) convivono per diversi giorni, condividendo la stessa musica e gli stessi spazi. C’è anche la possibilità di accamparsi per quattro giorni con la propria tenda, ma, unica nota negativa, il concetto di docce pubbliche stenta a farsi strada. Forse l’anno prossimo porterà consiglio…
Giunge quindi l’ora di una delle trappole più insidiose che attendono il turista in Cina: la Grande Muraglia. Durante l’escursione scopro che uno dei tre bergamaschi compagni di disavventure, Danilo, già avvistato al luculliano pranzo di Pasqua a Shanghai, conosce il mio concittadino Luigi, in quanto lavorano per la stessa ditta, e lo vede spesso ad Hong Kong. Innumerevoli sono i tranelli e le prove da superare lungo il percorso: lo spericolato pulmino con aria condizionata e guida che parla nei momenti sbagliati (venti minuti dopo il risveglio…) e tace quando invece dovrebbe dire qualcosa, le famigerate fabbriche statali per turisti, nell’ordine quella di giada, dove insegnano a distinguere la giada originale dalla plastica e dal vetro, e quella di ceramiche, dove durante il tour i lavoratori in pausa pranzo si sbafavano allegramente il rancio fra gli attrezzi del mestiere incuranti degli insonnoliti turisti. Con nostra grande fortuna abbiamo evitato la più temuta di tutte, ovvero il laboratorio di medicina tradizionale cinese, in cui un preoccupato medico di solito diagnostica strane malattie, disfunzioni e sbilanciamenti di yin e yang guarda caso curabili solo con costose erbe e pozioni lì presenti.
In un susseguirsi degno della mitica gita di Fantozzi alle Grotte di Postumia, arriviamo poi al paradiso degli allergici ai pollini, ovvero l’ingresso alla valle delle tombe Ming: un viale di oltre cinquecento metri, in cui si alternano filari di salici e colossali statue di animali e personaggi mitologici, avvolti in una tempesta di soffici batuffolini bianchi. Questo ameno viale è detto anche Via Sacra: notevole la traduzione del volantino pubblicitario, in cui era indicata come Scared Way. Forse volevano avvertirci del pericolo. Ecco quindi il pranzo tradizionale cinese: da segnalare il cameriere tuttofare, abile nel preparare caffé espressi piuttosto buoni ma soprattutto impareggiabile venditore di uno di quegli oggetti di cui si sentiva proprio la mancanza: un incrocio fra un fiammifero e uno zippo. Con la pancia alquanto piena, la guida ci abbandona ai piedi della Grande Muraglia, sezione di Mutianyu per la precisione. Fra rantoli, sbuffi e sudori superiamo il ripido dislivello e giungiamo alla tanto agognata meta: il panorama è magnifico, ogni passo ci rende presente la fatica fatta nei secoli scorsi per costruirla e mantenerla efficiente, e una coppia di cinesi pensa bene di inseguirci a rotta di collo chiamandoci a squarciagola per fare una foto con noi occidentali. Bello sentirsi delle trote da dieci chili appena pescate dal lago e fotografate per la gioia delle generazioni future.
Siamo ormai all’ultimo giorno, Silvia e Angela ci invitano a fare colazione nella loro stanza. L’appartamento, condiviso con altre due coppie di cinesi, si trova all’interno di uno dei tipici insediamenti costruiti per le danwei (unità lavorative) negli scorsi decenni. Gli edifici a sei piani sono attorniati da alberi e piccoli spazi destinati ad attività commerciali o funzioni collettive, come il parcheggio di biciclette gestito da un anziano del luogo. È la seconda volta che entro in un appartamento abitato da cinesi, la prima volta era stata in un nuovo compound a Shanghai, e devo dire che la differenza è piuttosto evidente: gli spazi comuni (bagno e cucina) nel vecchio appartamento pechinese lasciano piuttosto a desiderare, ma i servizi e l’atmosfera di cui godono i cittadini sono decisamente più accoglienti di quella del moderno compound shanghaiese.
Dalla loro camera, tappezzata di poster porno soft dal precedente inquilino rubacuori, ci spostiamo al famoso mercato delle pulci di Panjiayuan, dove ho condotto lunghe ed infruttuose trattative con una anziana venditrice di disegni e quadri. Inutile dire come fra le varie bancarelle dell’esteso mercato si trovasse di tutto e di più, inclusi bizzarri e voluminosi strumenti in pietra per autoerotismo femminile probabilmente dell’epoca Ming. A quei tempi le vibrazioni erano ancora manuali.
Lungo la strada del ritorno intravediamo il gigantesco cantiere per la nuove torri della CCTV progettate dall’OMA. Ormai è tardi, salutiamo Silvia e Angela e torniamo alla scintillante Clacsonville.
Arrivando da Shanghai, si ha quasi l’impressione che Pechino sia un immenso villaggio: alberi dovunque, quasi nessuno suona il clacson mentre guida, in alcune zone non si vede all’orizzonte nemmeno un edificio alto e gli abitanti sembrano molto più rilassati e disposti a fermarsi a conversare. Intendiamoci, Pechino è la capitale dello Stato più popoloso del mondo, è semplicemente sterminata (basti solo pensare che stanno costruendo il settimo anello di tangenziale attorno alla città…), ed anche qui, in particolare nelle zone di recente espansione, le torri per uffici ed i compound spuntano come funghi. Però…un dubbio si insinua. Sarà forse dovuto alla strade molto ampie e al fluire imperturbabile di persone e di mezzi, o alla ossessiva e geometrica pianificazione di ogni elemento urbano, dal più esteso al più minuto, resta il fatto che la strana sensazione che si ha è quella di una città ultraterrena, in cui gli abitanti non si occupano di comuni e frenetiche attività, di instabili negoziazioni, di commerci e quotidiani sotterfugi, ma ripetono con imperturbabile precisione misteriosi rituali dalla cadenza millenaria.
Percorrendo i sentieri e fermandosi nelle pagode del Palazzo d’Estate pare quasi di trovarsi in uno degli eleganti ed equilibrati dipinti cinesi del periodo imperiale, perlustrato palmo a palmo da ingordi consumatori di ghiaccioli.
I compatti e monocromi hutong, antichi quartieri popolari lontani antenati dei lilong di Shanghai, si sono ritirati in cerca di salvezza attorno alle rive dei laghetti Hou Hai, ed ogni portone rosso, presidiato dall’onnipresente bandiera nazionale, lascia intravedere mondi paralleli e storie dimenticate. Hugo Pratt avrebbe trovato qui innumerevoli corti sconte da cui far partire il Maltese verso l’ennesima avventura, o semplicemente fargli sorseggiare un tè e giocare a mahjong con un saggio vecchietto.
Piazza Tiananmen, assediata da edifici pubblici sgraziati e mastodontici ed impregnata di penetranti umori storici, sembra la grinzosa pelle di un elefante percorsa da fastidiose e minuscole mosche. La pesante coda, con la regolarità di un pendolo, le spinge verso le tre porte che danno accesso da sud alla Città proibita. Percorro quella centrale, un tempo era riservata solo all’Imperatore, mi avrebbero tagliato la testa per questo. Ora i tempi sono cambiati, e l’enorme ritratto di Mao vigila paterno sugli sciami vocianti. Il giallo, colore dell’Imperatore, ed il rosso dominano incontrastati, simmetria e ripetizione sono qui leggi assolute, ripetute come un mantra che si espande dai templi buddhisti, rinfrescanti ed ombrose oasi policrome. Un’altra legge che vige è quella del senso unico pedonale, alquanto bizzarra in un Paese in cui ognuno si comporta per le strade come fossero un ampio pascolo, e non c’è verso di convincere gli inflessibili vigili (aggettivo e nome qui altamente intercambiabili, ndr) a fare uno strappo alla regola (solito italiano direte voi…).
Esausti al punto giusto per essere sacrificati, ci spostiamo poi al Tempio del Paradiso. Il complesso è monumentale, al tempio vero e proprio seguono un altro tempio circondato dal famoso Muro dell’Eco e l’altare circolare, dove gli imperatori ed i sacerdoti svolgevano i loro riti beneauguranti.
Gli edifici sono disposti secondo un rigido e tradizionale asse nord-sud, e sono collegati dalla Via Sacra elevata rispetto al terreno.
Le serate nel frattempo le abbiamo passate in compagnia di Silvia e Angela, due delle ragazze italiane che avevamo conosciuto a Shanghai e che si sono fermate a Pechino per lavorare. Protagonista assoluta delle cene è stata l’anatra laccata, celeberrima specialità culinaria pechinese, accompagnata da abbondanti porzioni di altre ottime pietanze. Le serate sono poi proseguite spesso a San Li Tun, zona rinomata per i bar e i locali notturni. In questo ambito Pechino lascia un po’ a desiderare ed il confronto con Shanghai è impietoso.
Finalmente il giorno seguente, dopo aver dato un’occhiata ai cantieri delle strutture per le prossime Olimpiadi, andiamo al Midi Festival, ovvero il principale motivo per cui siamo venuti a Pechino durante la settimana di festività nazionale (altrimenti scelta degna di persona poco sana di mente).
Il Midi Festival, che si tiene da qualche anno durante i primi giorni di maggio, è il più grande ed importante festival musicale della Cina. Ci sono cinque palchi di diverse dimensioni, i gruppi che partecipano sono cinesi ed internazionali, e spaziano dal black metal scandinavo alla musica etnica caraibica, dal punk cinese alla musica elettronica internazionale. Il livello delle performance era mediamente piuttosto buono, ed alcuni concerti sono stati molto intensi e di ottima qualità. L’aspetto migliore del festival, a prescindere dalla musica, è l’atmosfera molto rilassata e positiva che si respira, persone molto diverse (dai punksenzabbestia alle signorine in tacchi e minigonna, dai giovani cinesi agli attempati metallari europei) convivono per diversi giorni, condividendo la stessa musica e gli stessi spazi. C’è anche la possibilità di accamparsi per quattro giorni con la propria tenda, ma, unica nota negativa, il concetto di docce pubbliche stenta a farsi strada. Forse l’anno prossimo porterà consiglio…
Giunge quindi l’ora di una delle trappole più insidiose che attendono il turista in Cina: la Grande Muraglia. Durante l’escursione scopro che uno dei tre bergamaschi compagni di disavventure, Danilo, già avvistato al luculliano pranzo di Pasqua a Shanghai, conosce il mio concittadino Luigi, in quanto lavorano per la stessa ditta, e lo vede spesso ad Hong Kong. Innumerevoli sono i tranelli e le prove da superare lungo il percorso: lo spericolato pulmino con aria condizionata e guida che parla nei momenti sbagliati (venti minuti dopo il risveglio…) e tace quando invece dovrebbe dire qualcosa, le famigerate fabbriche statali per turisti, nell’ordine quella di giada, dove insegnano a distinguere la giada originale dalla plastica e dal vetro, e quella di ceramiche, dove durante il tour i lavoratori in pausa pranzo si sbafavano allegramente il rancio fra gli attrezzi del mestiere incuranti degli insonnoliti turisti. Con nostra grande fortuna abbiamo evitato la più temuta di tutte, ovvero il laboratorio di medicina tradizionale cinese, in cui un preoccupato medico di solito diagnostica strane malattie, disfunzioni e sbilanciamenti di yin e yang guarda caso curabili solo con costose erbe e pozioni lì presenti.
In un susseguirsi degno della mitica gita di Fantozzi alle Grotte di Postumia, arriviamo poi al paradiso degli allergici ai pollini, ovvero l’ingresso alla valle delle tombe Ming: un viale di oltre cinquecento metri, in cui si alternano filari di salici e colossali statue di animali e personaggi mitologici, avvolti in una tempesta di soffici batuffolini bianchi. Questo ameno viale è detto anche Via Sacra: notevole la traduzione del volantino pubblicitario, in cui era indicata come Scared Way. Forse volevano avvertirci del pericolo. Ecco quindi il pranzo tradizionale cinese: da segnalare il cameriere tuttofare, abile nel preparare caffé espressi piuttosto buoni ma soprattutto impareggiabile venditore di uno di quegli oggetti di cui si sentiva proprio la mancanza: un incrocio fra un fiammifero e uno zippo. Con la pancia alquanto piena, la guida ci abbandona ai piedi della Grande Muraglia, sezione di Mutianyu per la precisione. Fra rantoli, sbuffi e sudori superiamo il ripido dislivello e giungiamo alla tanto agognata meta: il panorama è magnifico, ogni passo ci rende presente la fatica fatta nei secoli scorsi per costruirla e mantenerla efficiente, e una coppia di cinesi pensa bene di inseguirci a rotta di collo chiamandoci a squarciagola per fare una foto con noi occidentali. Bello sentirsi delle trote da dieci chili appena pescate dal lago e fotografate per la gioia delle generazioni future.
Siamo ormai all’ultimo giorno, Silvia e Angela ci invitano a fare colazione nella loro stanza. L’appartamento, condiviso con altre due coppie di cinesi, si trova all’interno di uno dei tipici insediamenti costruiti per le danwei (unità lavorative) negli scorsi decenni. Gli edifici a sei piani sono attorniati da alberi e piccoli spazi destinati ad attività commerciali o funzioni collettive, come il parcheggio di biciclette gestito da un anziano del luogo. È la seconda volta che entro in un appartamento abitato da cinesi, la prima volta era stata in un nuovo compound a Shanghai, e devo dire che la differenza è piuttosto evidente: gli spazi comuni (bagno e cucina) nel vecchio appartamento pechinese lasciano piuttosto a desiderare, ma i servizi e l’atmosfera di cui godono i cittadini sono decisamente più accoglienti di quella del moderno compound shanghaiese.
Dalla loro camera, tappezzata di poster porno soft dal precedente inquilino rubacuori, ci spostiamo al famoso mercato delle pulci di Panjiayuan, dove ho condotto lunghe ed infruttuose trattative con una anziana venditrice di disegni e quadri. Inutile dire come fra le varie bancarelle dell’esteso mercato si trovasse di tutto e di più, inclusi bizzarri e voluminosi strumenti in pietra per autoerotismo femminile probabilmente dell’epoca Ming. A quei tempi le vibrazioni erano ancora manuali.
Lungo la strada del ritorno intravediamo il gigantesco cantiere per la nuove torri della CCTV progettate dall’OMA. Ormai è tardi, salutiamo Silvia e Angela e torniamo alla scintillante Clacsonville.
sabato 5 maggio 2007
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